152 14 minuti 15 anni

Non so perché un giorno decisi di appendere le scarpette al chiodo e di passare dalla parte del “nemico” ma così accadde. Sarà stata l’intemperanza giovanile che mi portava più al comando che all’essere comandato e l’antipatia stessa per quei cartellini sventolatimi addosso che mi spinse a essere io stesso lo sventolatore in questione. Non che fossi un picchiatore, anzi, per via della velocità ero io la “vittima” in questione, vittima fortemente portata a reagire con avversari e direttore di gara ovvero spinta a farsi giustizia sommaria da sé. Parliamo di ere geologiche fa; le ere in cui anche la prima e unica (ingiusta e mi brucia ancora) insufficienza in italiano scritto provocava nel Vostro reazioni verso l’insegnante non garbatissime per non parlare di un prof di latino e greco troppo poco elastico di menti per i gusti di un eclettico liceale; le ere delle occupazioni, di Kurt, degli Alice in Chains, di Bob, del Che, delle chiacchierate infinite che non portavano a niente, di una ragazza fatta incazzare al punto da aprire la porta dell’aula durante una lezione in modo da smerdarti davanti a tutti, … ma anche i tempi in cui doveva ancora arrivare Elisa dagli occhi blu in una sera di luglio e una non troppo tranquilla trasferta nell’est europeo e soprattutto il 7 dicembre 2005 e tanto altro, più di una decina d’anni son passati da allora ma un po’ di carattere del cazzo è rimasto come vi sarete certamente accorti.

Torniamo alla giacchetta nera. Non cominciò per caso ma con un preciso scopo: dirigere e comandare una partita, beccarsi i soldi dei rimborsi spese e avere la tessera ufficiale dell’Aia così da poter entrare gratis allo stadio per di più in tribuna centrale. Un’altra cosa cui non vedevo l’ora di arrivare era quella di poter arbitrare gli Juniores così da ritrovare vecchi compagni di squadra e acerrimi rivali conosciuti ai tempi degli Allievi. Come vedete i propositi di un non ancora diciassettenne non erano certo dei migliori, bellicosi rancorosi vendicativi e assetati di comando e ripicca, ma tra questo e il campo per la prima partita ufficiale c’era di mezzo un intero corso di circa cinque mesi con annesso esame finale scritto più orale. Fu quel corso che mi cambiò obiettivi e destini. Capita d’incontrare persone nella vita che o ti migliorano o ti peggiorano ancora di più specialmente nell’età in cui è ancora tutto in divenire e in trasformazione, io ebbi la fortuna di trovare un allora promettente arbitro di Can D, campionato nazionale dilettanti, che amava insegnare nei ritagli di tempo l’arte dell’arbitrare ai novizi. Non farò nomi né dirò la sezione per cui ho arbitrato, non è importante ai fini del messaggio che voglio dare né sarebbe corretto verso delle persone che tanto mi hanno dato, detesterebbero essere pubblicizzate. La prima lezione la ricordo come fosse oggi. Ci ordinò di chiudere il libro del regolamento che ognuno doveva avere con sé, ci guardò negli occhi e disse: “La regola più importante e che non dovete mai dimenticare è la regola numero diciotto, la regola del buon senso, la regola non scritta che detta lo spirito di tutte le altre. Non dovete mai dimenticare che voi dovete intervenire nella partita solo se la partita ha bisogno di voi perché i veri protagonisti sono i giocatori non voi. La partita perfetta è quella in cui nessuno si sarà neanche accorto della vostra presenza”. Fu l’inizio di un percorso iniziato con altri tre amici e che ci occupò fruttuosamente due pomeriggi alla settimana nel terzo anno del Liceo Classico. Lo studio di ogni regola e circolare interpretativa era sempre accompagnato dalla visione di filmati di partite di ogni categoria fino alla Serie D, da reti nazionali e pay tv fino alla più piccola televisione locale il materiale visionato era moltissimo e aveva il preciso scopo d’insegnarci anche un calcio diverso da quello per cui ci eravamo innamorati di questo sport, un calcio che peraltro molti avevano già conosciuto venendo da esperienze a livello giovanile per i campetti di periferia dove si respira ancora la passione e il gusto di giocare fine a se stesso. Nulla era lasciato al caso dall’istruttore con grandissima attenzione ai particolari dalla gestione dei rapporti con i giocatori prima, durante e dopo la gara fino alle modalità di compilazione del referto passando per lo stile di corsa e finendo con la cura per il movimento delle braccia a partita in corso nel fischiare i falli e nel lasciar correre un’azione prestando cautela a evitare di gesticolare smodatamente. Più passavano le settimane più le intenzioni di guerra del Vostro lasciavano spazio al senso di responsabilità per il ruolo che stava per andare a ricoprire, due squadre che si allenano un’intera settimana per quei trenta (Giovanissimi), quaranta (Allievi) o quarantacinque minuti (da Juniores in su) di partita e che hanno diritto al miglior arbitraggio possibile per non veder resi vani i loro sforzi e le loro aspirazioni; cresceva la voglia di riuscire in questa nuova avventura per orgoglio e soddisfazione personali ma anche per non deludere le persone che tanto avevano fatto per darmi gli strumenti e gli insegnamenti corretti per rendere al meglio delle mie possibilità. Con il finire del corso e l’avvicinarsi dell’esame avvenne anche il primo incontro con il gruppo di arbitri effettivi della sezione poiché era consigliato iniziare a frequentare la doppia sessione di allenamenti serali settimanali e mi accorsi con mia grande sorpresa che l’ambiente era assolutamente goliardico e alla mano, perfino i futuri colleghi già in carriera a buoni livelli non perdevano l’occasione per prodigarsi nel dare consigli ai prossimi esaminandi. Ricordo una sera passata fino a tardi con uno di loro a imparare sul campo i movimenti da effettuare a seconda dell’andamento del gioco e della posizione del pallone tenendo conto della mancanza di guardalinee almeno fino alle prime categorie regionali, quindi per tutti i primi passi mossi nella carriera arbitrale. Si rivelerà questa la più grande difficoltà: individuare i fuorigioco senza l’aiuto degli assistenti. Un’altra sera fu perfino dedicata alle modalità con cui fischiare così da far venire fuori un fischio pieno e convinto e non una specie di pernacchia. Ovviamente gli allenamenti finivano in partitelle dove i novizi, come me, erano fatti esercitare ad arbitrare ed è da non credere che peperini ci fossero tra gli arbitri-giocatori, proteste a non finire per ogni decisione, naturalmente calcolate per farci entrare in clima-tensione. Quei mesi volarono, venne l’esame, lo passai ed entrai così a tutti gli effetti nell’organico.

L’esordio avvenne in una domenica mattina assolata degli inizi di settembre del 1998 in un paesotto fuori dal centro città dove abitavo e per giunta con la squadra di casa il cui dirigente accompagnatore era il padre di una compagna di classe malauguratamente avvertita da me e presente al match (era figa quindi ci stava di fare lo sborone). Prima c’era stata la consegna della divisa ufficiale, del taccuino con i cartellini, dei fischietti, della borsa della sezione, dei referti da compilare a fine gara e da spedire al giudice sportivo della zona e la raccomandazione di non dimenticare la monetina per il sorteggio iniziale (sembrano cazzate ma anche solo dimenticare la monetina ti manda in mona tutto!) e soprattutto il cronometro, almeno uno per polso per sicurezza, così se uno avesse dovuto bloccarsi ci sarebbe sempre stato l’altro, ammesso che ci si fosse ricordati di farli partire entrambi e simultaneamente. Un sacco di piccole cose che col tempo diventano automatiche come il rito della consegna della busta con la designazione per posta o più facilmente a mano, il venerdì delle riunioni di sezione cui era obbligatorio partecipare (utile anche per conoscere meglio le colleghe). C’era sempre una certa ansia nell’aprirla soprattutto con l’andare del tempo perché ormai si era imparato a conoscere quali erano i campi più fastidiosi-insidiosi e le squadre più rognose da dirigere. Poi nella busta potevi trovarti a sorpresa la promozione di categoria, cosa cui avevi imparato a tenere se non altro per vedere riconosciuti i tuoi sacrifici. L’orario dei Giovanissimi provinciali, categoria da cui si comincia, era per le 10 e 30 e questo implicava un notevole sforzo con annesse rotture da parte di chi si offriva per accompagnarti nei posti più sperduti visto che la patente a quell’epoca ancora non c’era, il sacrificato prescelto fu quasi sempre mio padre. Tenete conto che si deve arrivare almeno un’ora prima dell’inizio viste le formalità da sbrigare nel pre-partita e soprattutto per non dare la sensazione dell’arbitro che è andato in discoteca fino alle cinque del mattino e che si è ricordato all’ultimo di avere la partita da arbitrare, qualche volta mi è riuscito di fare entrambe le cose quando avevo già acquisito una certa padronanza del mestiere ma è sconsigliabile, garantito e testato. Imparai subito a conoscere fin da quel primo incontro una figura che segna i destini nel bene e nel male dei giovani arbitri: l’osservatore arbitrale. Egli si palesa solo a fine gara per non farti sapere se c’è o non c’è in modo da verificare il tuo impegno a prescindere dalla sua presenza, egli ti dà un voto da uno a cinque, egli varia sempre o quasi e le medie dei voti di tutti quelli che ti hanno visionato sanciscono la fine o meno della tua agonia in una determinata categoria (ho vegetato troppo a lungo negli Juniores provinciali!!).

Una delle cose su cui aveva insistito molto l’istruttore del corso era stato fin da subito il rapporto con i giocatori. Questo doveva essere impostato sul reciproco rispetto e sul dialogo fin dal primo momento, fin dall’appello negli spogliatoi prima del match con in mano le distinte firmate e i documenti dei tesserati da verificare uno per uno. Ci disse: “Quando arrivate al capitano, fermatevi, non importa che sia un capitano di una squadra di giovanissimi provinciali o di una squadra di Serie A, lui è il capitano, responsabilizzatelo, lui è il vostro referente, date solo a lui la mano presentandovi al momento dell’appello, così fate capire a tutti gli altri che è lui che ha tutti gli onori e gli oneri che derivano dal ruolo che i compagni e l’allenatore gli hanno assegnato”. Io feci così fin da quella prima partita e devo dire che in linea generale non ho avuto grandi problemi con i giocatori almeno fino agli Juniores compresi. I “grandi” invece…

Potrei raccontarvi molte cose dei miei circa quattro anni da arbitro. Di quella prima partita vinta dalla squadra fuori casa (ahimè!!) a causa di un gol in netto fuorigioco che io non vidi perché mal posizionato e non ancora abituato a leggere bene i movimenti delle difese da solo (gli assistenti sono di parte in queste categorie e segnalano solo quando la palla esce ma io mi sono sempre poco fidato), di come in quell’occasione il padre assai esagitato di un giocatore locale si appese alla rete urlando ogni genere di improperi al momento della convalida del gol decisivo, della volta in cui arbitrai per tutta la partita col colletto tirato su beccandomi un cazziatone senza precedenti da parte di un osservatore arbitrale, dell’esordio negli Juniores con un dirigente che cinque minuti prima dell’inizio mi entrò negli spogliatoi dicendomi che era appena morto il padre di un giocatore e che non sapeva se e come dirglielo prima di un match così importante (!!!), delle partite arbitrate di calcio femminile in terna con annessi ingressi negli spogliatoi dopo due soli e rapidi toc toc alla porta e relativi post-match più interessanti del solito, delle esperienze da assistente arbitrale con qualche vecchietto pieno di ombre incollato alla tua posizione dietro alla rete che ti lancia ogni genere di "consiglio" per tutti i novanta minuti, della volta in cui espulsi un giocatore che poi mi affrontò al momento di salire in macchina a partita abbondantemente terminata, di come quasi tutti gli arbitri all’inizio della carriera abbiano una squadra del cuore proprio come me e di come a mano a mano che vanno avanti debbano per forza dimenticarsela, … Potrei raccontarvi tanto altro ma mi sa che sono stato già più prolisso del solito per cui concludo solo augurandomi che queste mie “poche” righe possano esservi servite ad avere dell’arbitro una visione diversa da quella così in voga, magari ve l’ho reso più simpatico.

152 commenti su “I MILLE VOLTI DI UN DIRETTORE DI GARA

  1. scusate il doppio post. ho dimenticato una cosa: non pippa ma è spesso a ballare al the club. ora, se quando è sano sta a casa, non è dato sapere. ma ora che è rotto è li abbastanza spesso.

  2. Io non ho fonti ma penso proprio che sia fragile di suo e che in più l’abbiano curato malissimo l’anno scorso i medici del Milan quando poi è stato costretto a farsi operare dal medico della Nazionale italiana..se stai fermo un anno, a questi livelli, è dura riprendere, a meno che non ti chiami Alessandro Nesta ma in questo caso parliamo di un fenomeno.

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